C’è un angolo del Paese che si deve preoccupare di un virus che non colpisce gli umani, ma che potrebbe comunque causare danni difficilmente quantificabili e che rende indispensabile l’applicazione di misure rapide e drastiche per limitarne la diffusione. La buona notizia è che lo conosciamo da tempo: è il virus della peste suina africana (ASFV, dall’inglese African swine fever virus), che colpisce maiali e cinghiali e contro il quale in Italia combattiamo dal 1978, quando è arrivato il Genotipo I. La cattiva notizia è che per la prima volta il Genotipo II della malattia è giunto nel continente: da circa tre settimane un’area di circa 2.000 km2 al confine tra Liguria e Piemonte è in allerta totale per l’arrivo della peste suina africana (PSA in italiano), e decine di migliaia di suini sono a rischio nei prossimi mesi.
DI CHE COSA PARLIAMO: nonostante il nome rimandi alla peste (e quindi a un batterio), «quello della peste suina africana è un virus», come ci spiega Vittorio Guberti, veterinario dell’ISPRA e docente all’università di Bologna: «è un virus delle zecche, e in Africa, da dove è arrivato, si trova nel facocero. Sia le zecche sia i facoceri, però, sono portatori sani e asintomatici. È quando noi europei abbiamo introdotto il maiale in Africa che l’abbiamo visto in azione: gli animali prendevano il virus dalle zecche e morivano».
Il nome della malattia ha però un collegamento con la peste umana: «La parola “peste” si usa per definire tutti i patogeni che danneggiano l’epitelio dei vasi sanguigni e causano emorragie interne, e quindi esternamente si manifestano lividi e bubboni. Sia la peste suina classica sia quella africana hanno questi effetti: i virus appartengono a famiglie diverse, ma hanno identici effetti». In Europa, il Genotipo II della peste suina africana è arrivato nel 2007, in Georgia, nel porto di Poti, sul Mar Nero: «Il virus è arrivato con le navi, e da lì si è diffuso per tutto il continente; prima in Armenia e Azerbaijan, poi in Russia, dopodiché il suo percorso si è biforcato: a est è arrivato prima in Cina, per poi diffondersi a tutto il sud-est asiatico, mentre a ovest ha attraverso anche l’oceano, quest’estate, ed è stato trovato a Santo Domingo e Haiti». Una diffusione globale causata da noi umani, che abbiamo trasportato la PSA in giro per il mondo con navi e aerei.
QUALI DANNI FA LA PSA? «La peste suina africana», ci spiega ancora Guberti, «ha un’incubazione molto breve e un decorso altrettanto rapido: le emorragie interne causate dal virus uccidono un animale in pochi giorni. Praticamente tutti gli animali infetti muoiono: la letalità della PSA è del 90%». Il virus è contagioso e molto resistente nell’ambiente, e in grado di sopravvivere per mesi al di fuori di un ospite (e anche all’infinito, se sta nella carne congelata). Colpisce esclusivamente cinghiali e maiali, e non si trasmette ad altre specie – neanche all’uomo, come Guberti ci tiene a precisare immediatamente all’inizio della nostra conversazione: visto il periodo, immaginiamo che la domanda gli sia già stata posta diverse volte. Questa sua esclusività non lo rende però meno pericoloso: oltre ai danni che può causare alle popolazioni di cinghiali selvatici ci sono quelli che provoca agli allevamenti di maiali, dei quali parleremo tra poco. In più, in altre aree del pianeta (in particolare in Indonesia e dintorni), rischia di portare all’estinzione alcune specie rare del genere Sus, dal babirussa al cinghiale barbato.
CHE COSA STA SUCCEDENDO IN ITALIA? Come accennato sopra, l’arrivo della PSA non è una novità per il nostro Paese: «Il Genotipo I del virus è presente in Italia dal 1978, quando è arrivato in Sardegna. La Sardegna però è un’isola e quindi relativamente più facile da gestire: ci abbiamo messo molto, ma siamo finalmente in vista del traguardo dell’eradicazione del virus». Diverso è il discorso relativo alle zone attualmente infette, interessate da un’epidemia del Genotipo II. La prima carcassa di cinghiale morto per PSA è stata individuata lo scorso 7 gennaio nel comune di Ovada, in Piemonte; da allora ne sono state rinvenute almeno altre 12 (i dati sono aggiornati al momento in cui scriviamo, il 27 gennaio, ma la situazione potrebbe cambiare rapidamente). «L’arrivo in Liguria e Piemonte è preoccupante per molti motivi. Innanzi tutto perché le regioni coinvolte non sono solo due ma cinque: gli animali infetti sono stati trovati al confine con Lombardia ed Emilia-Romagna, e anche la Toscana è a rischio. Da qui, il virus potrebbe cominciare a correre: se arrivasse a colpire regioni dove la suinicoltura è un’attività economica trainante causerebbe danni incalcolabili. Un esempio? Se arrivasse nelle aree dove si produce il prosciutto di Parma, quel prodotto non potrebbe più uscire dalla zona infetta, a meno di ottenere deroghe e passare una serie di verifiche sanitarie che farebbero lievitare i costi di produzione.»
Il problema dunque è duplice: da un lato la popolazione di cinghiali selvatici rischia di venire decimata e diventare il serbatoio del virus causando la diffusione su larga scala dell’infezione; dall’altro la presenza del virus nel cinghiale pone un alto rischio di diffusione della malattia nel maiale mettendo a rischio tutta la filiera produttiva delle carni e della loro trasformazione.
QUINDI, COME FACCIAMO? Come fare a combattere questa epidemia? Non c’è niente da decidere: è già tutto scritto in una direttiva dell’unione europea che prevede una fase di contenimento e ricerca, quella nella quale siamo attualmente e che consiste nel bloccare ogni attività sul territorio infetto, quindi divieto di caccia, di raccolta funghi e tartufi, di trekking, di pesca; anche ai cani viene fatto divieto d’accesso perché potrebbero portarsi dietro, appiccicato al pelo o alle zampe, terreno e fango toccati dai cinghiali infetti e potenzialmente potrebbero trasmettere l’infezione agli allevamenti della zona. Contestualmente a questa fase di ricerca delle carcasse vanno sfruttate le barriere naturali e pseudonaturali come fiumi e soprattutto autostrade per piazzare delle reti per impedire il passaggio dei cinghiali dalla zona infetta fino alla pianura padana.
L’atto finale, la decisione ultima su cosa fare una volta finita la fase di contenimento, spetta al Ministero della Salute ma è già scritta nella direttiva SANTE/7113/2015, e prevede l’eradicamento totale della malattia dal territorio, quindi l’abbattimento di tutti i cinghiali all’interno della zona di infezione, con un successivo e progressivo ripopolamento dopo qualche tempo. Un abbattimento massivo del genere, alcune associazioni parlano di oltre 50mila cinghiali da sopprimere, non è una cosa che possono fare i cacciatori volontari da soli. Una fonte regionale spiega che un’operazione del genere, dal punto di vista logistico, non è sostenibile dai cacciatori, volontari o meno, è una cosa che deve fare lo Stato e con grande forza e decisione, perché il tempo è un fattore chiave.
“Non possiamo permetterci di convivere con questa malattia – spiega Daniela Pastorino, intercettando l’umore sia dei cacciatori che degli esperti regionali che stanno lavorando al caso – dobbiamo fare presto perché il tempo sta per scadere”